<Il maestro, la maestra, il professore, la professoressa non si discutono, sanno cose che io non conosco.>
Potevano essere queste le parole di un ipotetico dialogo interiore che un genitore di qualche generazione fa intratteneva con sé stesso interrogandosi sull’andamento del proprio figlio/a scuola (posto che ne avesse il tempo materiale di farlo).
<Adesso quel prof mi sente, ma come si permette? Io conosco mio/a figlio/a e so qual è il bene per lui/lei>
Queste sono le parole che spesso vengono utilizzate oggi da molti genitori, parole che spesso non abitano più il pensiero dell’adulto ma vengono scritte attraverso comunicazioni sul diario, su gruppi WhatsApp, sui social networks.
Cosa è cambiato , quali movimenti tettonici stanno trasformando la scuola e tutti i suoi stakeholders, i cosiddetti portatori di interesse ?
Proverò a darne qualche suggestione focalizzando l’attenzione sulla relazione tra 2 di questi stakeholders, i genitori e gli insegnanti, ben consapevole di non poter essere esaustivo in poche righe e cercando di disegnare alcuni tratti salienti senza darne un giudizio bensì evidenziandone gli spigoli e le possibili conseguenze che una siffatta relazione possa generare nella società futura.
Ho usato volutamente una metafora geologica (movimenti tettonici) perché siamo sempre in movimento e in trasformazione, proprio come le zolle su cui poggiamo i nostri piedi. I movimenti lenti e continui si fanno a volte più violenti generando terremoti causati dall’accumulo di energia, rimangono comunque continui e onnipresenti. Così la scuola vive momenti di rottura più marcati alternati a momenti di apparente quiescenza.
Senza addentrarci, per mancanza di spazio fisico, troppo in profondità proverò a definire alcuni tratti del cambiamento in atto nella relazione tra scuola (corpo docente) e famiglia (genitori e adulti che esercitano una qualche forma di potestà sul minore).
In ogni relazione innanzitutto ci si deve riconoscere reciprocamente e se non lo si fa c’è bisogno di farlo quanto prima. Abbiamo bisogno di dirci il nome, così facendo diciamo chi siamo.
In secondo luogo c’è bisogno di sospendere il giudizio sull’altro mettendoci in atteggiamento accogliente. Sospendere il giudizio vuol dire prenderne coscienza e “metterlo da parte” in attesa di vederlo confermato o di poterlo cambiare. La formazione di un “pre-giudizio” è profondamente umana e negarselo ci metterebbe in pericolo. Occorre invece farsene qualcosa, dargli un nome e accettarne la sua esistenza, solo così ci regaliamo la possibilità di cambiare opinione e di accogliere il nuovo.
Oggi sembra che l’atteggiamento con cui ci poniamo, come genitori, di fronte alla scuola sia sostanzialmente di simmetria e diffidenza e che la prima alimenti e sostenga l’altra. La simmetria di cui parlo si esprime a livello di competenze riconosciute.
La conseguenza di questa simmetria è che qualsiasi genitore pensa di “saperne” almeno e forse di più dell’insegnante del proprio figlio/a e se io ne so di più mi sento in diritto di dare suggerimenti su come fare il tuo lavoro, di criticarti per come lo fai.
La conseguenza di questo sentirsi alla pari, dal punto di vista delle competenze, nel migliore dei casi, se non addirittura superiori genera di conseguenza un atteggiamento di diffidenza nei confronti dell’insegnante e del suo operato. Diffidenza che sfocia in continue invasioni di campo, in atteggiamenti di controllo e valutazione sul lavoro del docente, in critiche distruttive e a volte anche violente.
D’altra parte, spesso i docenti addossano alla famiglia i motivi degli insuccessi dei figli come se anche loro non fossero corresponsabili di tali insuccessi. Sarebbe sempre meglio che noi insegnanti, educatori e adulti impegnati nella formazione non dimenticassimo mai un proverbio preso dal mondo delle arti marziali: non esistono cattivi allievi, esistono solo cattivi maestri. Il pensiero serpeggiante, non riconosciuto e spesso negato tra il corpo docente è che “con una famiglia così alle spalle non si può combinare nulla con quel ragazzo/a”. Avendo la percezione di essere un gruppo elitario il corpo docente si trova così a esasperare una relazione basata su una forte asimmetria io so/tu non sai con il risultato di una chiusura difensiva nel tentativo di preservare un ruolo.
Abbiamo quindi da una parte i genitori che agiscono una relazione dove i paradigmi fondanti sono simmetria e diffidenza e il corpo docente dove domina l’asimmetria e la chiusura.
Va da sé che in una situazione del genere mancano i presupposti per una relazione sana e costruttiva che possa arricchire entrambe le parti e soprattutto generare valore per chi beneficia della presenza dei due “contendenti”: i nostri ragazzi. Facendoli vivere in una relazione di questo tipo diamo loro qualche rimando molto negativo: non mi devo fidare degli altri, quello che fanno gli altri non sarà mai all’altezza di quello che faccio io. Non è un insegnamento diretto certamente, ma avviene (in maniera molto più pericolosa) quasi per osmosi.
Se la mamma e il papà, a cui voglio bene, sgridano e si arrabbiano con la mia maestra come posso volergli bene io e (af )fidarmi (a) di lei? Se la maestra , a cui voglio bene, dice che a casa mamma e papà mi devono aiutare meglio come posso apprezzarli per quello che sono? Se loro si fanno “la guerra” con chi devo schierarmi?
Questa domanda lavora sotterranea ed è una bomba atomica per i nostri ragazzi.
Ecco il mio suggerimento, guardiamoci in faccia genitori e docenti , mettiamo sul tavolo tutti i nostri pregiudizi e lavoriamo insieme per non lasciare ai nostri figli il peso di rispondere alle domande che ho sopracitato: non è compito loro doverlo fare e non se le meritano.
Immaginiamo di imbarcare i nostri figli/alunni (sono la stessa persona che agisce ruoli diversi, non dimentichiamolo) su una grande barca a remi, e poi di salire noi , genitori e insegnanti. L’unica cosa su cui siamo d’accordo è il porto di destinazione: il benessere e l’autonomia dei nostri ragazzi (forse). Poi iniziamo a discutere sui posti da occupare, sulla rotta da seguire, sugli strumenti da utilizzare. Ci squadriamo facendo ironia sui reciproci mezzi fisici: con quelle braccine non potrà mai remare, meglio che si sieda dietro, non ho voglia di remare anche per lui, così basso non potrà mai essere d’aiuto e ci farà perdere, così grasso sarà un peso inutile. Poi discutiamo sulle abilità di ciascuno: ma se non sa neanche parlare come vuoi che possa dare ordini alla “ciurma”? Se non è mai salito su una barca come potrà seguire la rotta con una mappa? Lui/lei farà il capitano?
Il risultato è semplicemente che la barca rimarrà ferma, e se salperà avrà mezzo equipaggio infelice sempre pronto all’ammutinamento.
Vogliamo davvero che sia così?
Non ho risposte, ma c’è bisogno di cercarle, con forza, con impegno e costanza. Un buon punto di partenza può essere ricordarsi che siamo lì “per” e non “contro” e da lì costruire un nuovo patto.
"articolo scritto e pubblicato per la rivista "Sovranità Popolare"